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Un portale a cura di Marco Ilardi

Riti e Segreti delle Grotte Platamonie: il lato esoterico di Napoli

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A due passi dal lungomare più celebrato della città, si nascondeva un mondo fatto di antri e di divinità dimenticate. Via Chiatamone, oggi strada elegante e trafficata, un tempo era nota come la “Posillipo dei pezzenti” e, nei suoi recessi rocciosi, custodiva le antiche grotte platamonie, così chiamate dal termine greco platamon, che indica l’erosione della roccia a opera dell’acqua. Questi spazi, poi ulteriormente scavati dai primi abitanti dell’area, arrivavano a toccare altezze vertiginose, creando una rete di cavità ideali per cerimonie lontane da sguardi indiscreti.

Le fonti antiche e le ricerche di storici locali confermano che, fino alla metà del Cinquecento, in queste grotte si celebravano riti propiziatori in onore di divinità come Mithra, Serapide, Venere e Cibele. Ma era soprattutto la notte, rischiarata dal bagliore delle torce, a ospitare i rituali più licenziosi, dedicati a Priapo, dio della fertilità nato da Dioniso e Afrodite, celebre per l’aspetto osceno e per l’impeto passionale.

Miti e leggende narrano di menadi che, coronate di alghe marine, si prestavano a cerimonie orgiastiche con ierofanti mascherati da creature mezzo uomo e mezzo pesce, in una fusione di sacro, profano e potenza erotica. Per arginare lo “scandalo delle orge”, il viceré Don Pedro de Toledo decise, nel 1563, di far murare gran parte degli ingressi agli antri, mettendo così fine ai culti che avevano reso famigerata la zona.

Eppure, il sottosuolo di Napoli non ha mai cessato di riservare sorprese. Già in epoca greca, queste cavità non erano solo luoghi di culto, ma anche rifugi dal caldo asfissiante. In seguito, durante la dominazione romana, alcune grotte furono convertite in bagni termali, sfruttando sorgenti sulfuree presenti sotto il Monte Echia, mentre la collina di Pizzofalcone si ornava della sontuosa villa di Lucio Licinio Lucullo.

Con il passare dei secoli, l’area rimase crocevia di popoli e interessi: c’è chi sostiene che nella fascia costiera sottostante, oggi in parte sommersa, si scorgano tracce di antichi porti greci legati a Parthenope o Falero. Anche se non tutte le ipotesi sono state confermate, i pescatori di Santa Lucia giurano di aver avvistato gallerie sommerse che alimentano la leggenda di un passato in gran parte sepolto dal mare.

Fra tutte le cavità che costellavano questa zona, ve ne fu una in particolare dalla storia tanto suggestiva quanto aspra: la grotta degli spagari. Situata sotto la Nunziatella, a Pizzofalcone, era accessibile da uno stretto passaggio nei dintorni del complesso di Santa Maria a Cappella Vecchia, subito alle spalle di palazzo Sessa (frequentato, fra gli altri, da Goethe e sede fin dal 2012 dell’omonimo Istituto, oltre a ospitare la sinagoga ebraica fin dal 1864). All’epoca, l’aspetto dell’area era completamente diverso, dato che non esisteva via Morelli (allora chiamata via Pace), e il panorama urbano era assai meno compatto.

La grotta degli spagari, parte integrante del complesso delle platamonie, probabilmente aveva ospitato un mitreo in epoca romana, per poi continuare a essere frequentata anche nel Medioevo. Già nel Settecento, però, era nota soprattutto per l’uso che se ne faceva: qui, in condizioni igieniche precarie e in perenne umidità, si filava lo spago per fabbricare reti da pesca, da cui il nome “spagari” (o cordai, o funari). Per guadagnare poche monete, famiglie intere trascorrevano le giornate e parte delle notti a torcere e avvolgere fibre grezze, con i bambini intenti a far girare senza sosta gli assi delle ruote. In “La miseria in Napoli” (1877), Jessie White Mario descrive con toni accorati l’atmosfera malsana che regnava in quell’antro profondo. Il soffitto e il terreno bagnati dalla condensa, la divisione in stanzette improvvisate, i turni di lavoro che toccavano le 18 ore al giorno, tutto trasmetteva un senso di oppressione e fatica. Le stesse condizioni di degrado furono denunciate da Marino Turchi, Renato Fucini, Pasquale Villari e Matilde Serao, che evidenziarono il drammatico contrasto fra la penombra funesta delle grotte e la vita fastosa dei palazzi nobiliari di Monte di Dio, costruiti esattamente sopra quegli spazi.

Oggi, la grotta degli spagari risulta in parte murata e in parte trasformata in garage, con enormi pilastri realizzati alla fine dell’Ottocento per sostenere le fondamenta degli edifici soprastanti.

Proseguendo verso le alture, le rampe di Pizzofalcone offrono oggi al visitatore un paesaggio asimmetrico ma carico di suggestione. Case arroccate sulle antiche pareti di tufo, ripide salite che si arrampicano fin quasi a Villa Ebe — progetto neogotico dell’estroso Lamont Young — e scorci che si aprono sul Golfo di Napoli, alternando il blu del mare al grigio vivido della pietra. Questa conformazione labirintica conserva ancora l’impronta della storia più remota, quando i primi coloni greci scelsero di sfruttare le grotte per estrarre materiale da costruzione e, al contempo, come rifugio difensivo. In epoca romana, la zona divenne un paradiso di otium, di cui restano echi nella villa di Lucullo, famosa per i banchetti sfarzosi e per l’introduzione di orti e vivai esotici. Con il tempo, però, nacque una stratificazione che mescola cunicoli d’epoca greca, passaggi medievali e costruzioni nobiliari del Seicento e del Settecento, generando un dedalo in cui è facile perdersi, sia fisicamente che con la fantasia.

Oggi, la placida via Chiatamone sembra non avere nulla a che fare con l’antico scenario di torce, danze propiziatorie e canti orgiastici. La scure della censura vicereale è calata secoli fa, eppure il fascino di quelle grotte sopravvive nella memoria popolare. Basta conoscere il passato di quest’area per immaginare fiocchi di luce tremolante che si inoltrano nell’oscurità, sussurri di preghiere rivolte a dèi ormai lontani e il fragore dei panni bagnati dal mare.

Gli anfratti sotterranei e i resti di corridoi murati, talvolta scoperti per caso nelle fondamenta di vecchi palazzi, rammentano che Napoli, come un palinsesto infinito, non smette di scrivere e riscrivere se stessa.

E così, anche se gli antichi riti non si celebrano più, e i canti tribali si sono spenti, nel sottosuolo di questa città aleggia ancora lo spirito arcaico delle grotte platamonie, custodi secolari di segreti e di storie destinate a non finire mai.

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