Napoli e il cinema hanno un legame profondo e antico, fatto di storie, volti indimenticabili e luoghi iconici. Sin dagli albori della settima arte, il capoluogo partenopeo è stato scenario di film che ne hanno esaltato il carattere unico. Dai vicoli brulicanti dei Quartieri Spagnoli alle vedute del Golfo sotto l’occhio vigile del Vesuvio, Napoli non è mai stata solo uno sfondo neutro: spesso si è trasformata in un vero e proprio personaggio cinematografico, con la sua anima vivace, drammatica e folcloristica.
In questo articolo esploreremo l’evoluzione del cinema napoletano dal dopoguerra ad oggi, passando in rassegna i film ambientati a Napoli più significativi, i grandi registi e attori napoletani che hanno lasciato il segno e il modo in cui la città stessa è divenuta protagonista sul grande schermo.
Prepariamoci a un viaggio tra film napoletani d’epoca e contemporanei, tra risate e lacrime, tradizione e innovazione, in compagnia di Totò, Troisi, De Filippo, Bud Spencer e molti altri volti cari al pubblico. Napoli ci attende in pellicola, con i suoi mille volti e colori.
Napoli sul grande schermo: tra storia e identità
Prima di addentrarci nei dettagli cronologici, vale la pena chiedersi: cosa rende un film “napoletano”? Non si tratta solo di essere ambientati a Napoli, ma di catturare lo spirito partenopeo, attraverso dialetto, cultura, musiche e una particolare sensibilità narrativa. Il cinema partenopeo nasce da una città che è essa stessa spettacolo a cielo aperto, palcoscenico naturale di drammi e commedie umane. Già alla fine dell’800 i fratelli Lumière girarono alcuni dei primi filmati documentari sul lungomare di Napoli, affascinati dal brulicare della vita quotidiana cittadina. Da allora, Napoli è comparsa in centinaia di pellicole: secondo il database IMDb oltre 600 titoli tra film, fiction e documentari hanno sfruttato il capoluogo campano come set. Questa costante presenza ha alimentato un vero e proprio turismo cinematografico: i cinefili possono passeggiare tra via Toledo, Spaccanapoli o la Sanità ripercorrendo scene cult immortalate sullo schermo.
Ma al di là delle location suggestive, Napoli offre al cinema una identità forte: è la città dei contrasti, dove la miseria e la nobiltà (per citare una celebre commedia) convivono, dove all’ombra del Vesuvio si alternano risate di cuore e tragedie struggenti. Questa duplice anima sarà il filo conduttore nell’analisi dei film napoletani attraverso le epoche.
Dal dopoguerra ai primi anni ’60: neorealismo e commedia popolare
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, Napoli fu tra le prime città italiane a rivivere sul grande schermo le proprie ferite e speranze. Nel 1946 Roberto Rossellini girò a Napoli uno degli episodi di “Paisà”, film simbolo del neorealismo: tra macerie e bambini di strada, la città appare viva e dolorante, offrendo al mondo una testimonianza sincera della realtà post-bellica. Pochi anni dopo, il teatro partenopeo approdò al cinema con “Napoli milionaria” (1950), tratto dall’opera di Eduardo De Filippo: la pellicola, diretta dallo stesso Eduardo, racconta con amara ironia le difficoltà della guerra e della ricostruzione attraverso una famiglia napoletana, e segna uno dei primi grandi successi del cinema napoletano del dopoguerra.
Negli anni ’50 Napoli divenne scenario di numerose produzioni, oscillando tra commedia e melodramma popolare. Il 1954 fu un anno d’oro: uscì “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica, film a episodi che ritrae uno spaccato folcloristico della città (indimenticabile Sophia Loren nei panni della pizzaiola che perde l’anello impastando, o Totò nel ruolo del nobile squattrinato che gioca a carte per finta dignità). Nello stesso anno il musical “Carosello napoletano” vinse premi internazionali portando sullo schermo canzoni e tradizioni partenopee in una vivace rivista cinematografica, mentre “Miseria e nobiltà” fece rivivere la celebre farsa ottocentesca di Eduardo Scarpetta con l’interpretazione magistrale di Totò.
Proprio Totò, al secolo Antonio De Curtis, dominava in quel decennio la scena comica nazionale: pur essendo le sue pellicole spesso ambientate a Roma o in luoghi immaginari, Totò portava al cinema l’anima e il dialetto di Napoli. Film come “Miseria e nobiltà” o alcune celebri scene in “Totò, Peppino e la… malafemmina” (1956) lo vedono esprimere una comicità verace, fatta di gestualità e battute in napoletano che il pubblico di tutta Italia imparò ad amare.
Totò divenne il “Principe della risata”, una maschera popolare moderna che richiamava la tradizione di Pulcinella, incarnando vizi e virtù dell’uomo comune partenopeo con irresistibile brio.
Accanto alla commedia, non mancò il successo del melodramma sentimentale di ambientazione meridionale, erede diretto della sceneggiata teatrale napoletana. Registi come Raffaello Matarazzo diressero film strappalacrime amatissimi dal pubblico: “Catene” (1949) e “I figli di nessuno” (1951) riempirono le sale con storie di amori impossibili e sacrifici materni, ambientate in contesti popolari riconoscibili.
Queste pellicole, pur guardate con diffidenza dalla critica dell’epoca, furono campioni d’incassi impressionanti (superando all’epoca il miliardo di lire al botteghino) e contribuirono a diffondere nell’immaginario nazionale la figura della madre coraggio o della sposa fedele tipica del melodramma partenopeo. In parallelo, c’era spazio anche per produzioni internazionali affascinate dal mito di Napoli: Hollywood arrivò all’ombra del Vesuvio con “La baia di Napoli” (1960, titolo originale It Started in Naples), commedia romantica con Clark Gable e Sophia Loren che mostrava al mondo il lato solare e spensierato della città, tra canzoni e panorami mozzafiato.
Anni ’60 e ’70: impegno civile, risate e lacrime sotto il Vesuvio
Con gli anni Sessanta, il cinema ambientato a Napoli iniziò ad affrontare anche temi sociali e storici con maggior incisività. Un film di grande rilievo fu “Le quattro giornate di Napoli” (1962) di Nanni Loy, che rievoca l’eroica insurrezione popolare contro i nazisti nel 1943: girato tra le strade autentiche della città, il film mescola azione corale e memoria storica, meritando anche una candidatura all’Oscar.
L’anno successivo il regista napoletano Francesco Rosi scosse il pubblico con “Le mani sulla città” (1963), coraggioso affresco di denuncia sulla speculazione edilizia e la corruzione politica nella Napoli del boom economico. Rosi, con sguardo lucido e stile quasi documentaristico, mostra palazzi che crollano, cantieri selvaggi e connivenze tra costruttori e amministratori corrotti: Napoli diventa simbolo di un’Italia intera in preda al cemento facile. Il film vinse il Leone d’Oro a Venezia, segnando uno dei vertici del cinema d’impegno civile e dimostrando che la città partenopea poteva essere rappresentata anche nei suoi aspetti più critici, lontano dagli stereotipi pittoreschi.
Parallelamente al filone serio e politico, proseguì la tradizione della commedia all’italiana con sfumature partenopee. Molti registi inserirono Napoli e i napoletani nelle loro storie brillanti: ad esempio, “Ieri, oggi, domani” (1963) di Vittorio De Sica – premio Oscar come miglior film straniero – dedica uno dei suoi episodi a una storia ambientata nei Quartieri Spagnoli, dove Sophia Loren interpreta una popolana che sforna figli per evitare il carcere, affiancata da un esilarante Marcello Mastroianni.
In questa cornice popolare, il dialetto e l’ironia di Napoli emergono con autenticità. Dino Risi diresse invece la commedia farsesca “Operazione San Gennaro” (1966), in cui un gruppo di ladruncoli tenta di rubare il tesoro del santo patrono: tra inseguimenti e gag, la pellicola sfrutta la scaramanzia e la devozione popolare come elementi narrativi, regalando anche un cameo al grande Totò.
La comicità napoletana degli anni ’60 trovò spazio pure in film come “Il giudizio universale” (1961) – surreale affresco corale con la presenza di Eduardo De Filippo e altri attori napoletani – a testimonianza di quanto i talenti partenopei fossero richiesti nel panorama nazionale.
Gli anni Settanta videro una fase di cambiamento. Mentre il cinema italiano attraversava crisi e trasformazioni, a Napoli prendeva piede un fenomeno di revival della sceneggiata al cinema, trainato da un nuovo attore-cantante carismatico: Mario Merola. Fu lui il protagonista di una serie di film melodrammatici in dialetto napoletano, ispirati alle sceneggiate teatrali tradizionali, con storie di camorra, onore e famiglia. Titoli come “Sgarro alla camorra”, “Zappatore”, “Lacrime napulitane” (metà anni ’70 e primi ’80) riempirono i cinema del sud, presentando un universo popolare fatto di passioni forti e canzoni struggenti. Pur considerati di nicchia su scala nazionale, questi film consolidarono la figura di Napoli come sfondo di drammi umani universali, dove il canto neomelodico sottolinea gioie e dolori di quartiere.
Non mancò in quegli anni neanche il contributo partenopeo al cinema di genere e internazionale. Un esempio singolare è “Decameron” (1971) di Pier Paolo Pasolini: pur ispirato alle novelle toscane di Boccaccio, il film fu girato in gran parte tra Napoli e dintorni, e Pasolini scelse di far recitare gli attori in napoletano, trovando in quella lingua antica e vivace una forza espressiva particolare. Anche la commedia sexy all’italiana ebbe la sua declinazione locale, e polizieschi e gialli ambientati a Napoli comparvero sul finire del decennio.
Da segnalare la nascita di una leggenda internazionale made in Napoli: Bud Spencer, alias Carlo Pedersoli, gigante buono del cinema action-comedy. Nato a Napoli, Bud Spencer divenne famoso in coppia con Terence Hill in tutta una serie di scazzottate divertenti; negli anni ’70 riportò il suo cuore partenopeo sullo schermo con “Piedone lo sbirro” (1973), in cui interpretava il burbero ma giusto commissario Rizzo, un poliziotto napoletano che combatte il crimine a suon di cazzotti.
Il successo di Piedone (seguito da altre avventure ambientate in giro per il mondo ma con origini a Napoli) mostrò un eroe napoletano fuori dagli schemi classici: niente macchiette o melodrammi, ma un uomo d’azione genuino e simpatico amato dal pubblico di ogni età.
Anni ’80 e ’90: la nuova comicità di Troisi e il cinema partenopeo verso il mondo
All’inizio degli anni Ottanta il cinema italiano trovò nuova linfa proprio a Napoli, grazie a un giovane attore e regista capace di parlare in modo diverso della sua terra: Massimo Troisi. Nato a San Giorgio a Cremano, cresciuto artisticamente nel cabaret de “La Smorfia”, Troisi esordì nel lungometraggio con “Ricomincio da tre” (1981). Questa commedia agrodolce su un ragazzo napoletano emigrato in Toscana, piena di gag linguistiche e timidezze sentimentali, fu un trionfo imprevisto: costato pochissimo, incassò cifre record (circa 14 miliardi di lire dell’epoca) rimanendo in programmazione in un cinema per quasi due anni consecutivi. Troisi vinse premi importanti e, soprattutto, conquistò il cuore di milioni di italiani.
La sua comicità sommessa, fatta di esitazioni, sguardi e riflessioni ironiche in dialetto, rappresentava un volto nuovo di Napoli – lontano dagli stereotipi del napoletano chiassoso – e proprio per questo autentico e universale. Spesso definito l’erede moderno di Totò e Eduardo per l’amore che il pubblico gli tributava, Troisi in realtà creò una maschera unica: il giovane uomo comune del sud alle prese con piccoli grandi dilemmi quotidiani, sempre in bilico tra riso e malinconia. Film successivi come “Scusate il ritardo” (1983) e “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” (1991) approfondirono questa poetica intima dei sentimenti, mentre la parentesi fantastica di “Non ci resta che piangere” (1984, insieme a Roberto Benigni) dimostrò la sua versatilità comica.
L’apice internazionale fu raggiunto con “Il postino” (1994), ultima interpretazione di Troisi uscito postumo: pur ambientato su un’isola del sud diversa da Napoli, il film portò un artista partenopeo alla ribalta mondiale con varie nomination agli Oscar, celebrando il potere della poesia e dell’amicizia oltre le barriere linguistiche (Troisi recitava con toccante semplicità accanto all’attore francese Philippe Noiret).
Accanto a Troisi, gli anni ’80 videro emergere un altro insolito cantore di Napoli: Luciano De Crescenzo. Ingegnere prestato alla letteratura e poi al cinema, De Crescenzo esordì dietro la macchina da presa con “Così parlò Bellavista” (1984), tratto da un suo romanzo di grande successo.
Il film, ambientato in una Napoli anni ’80 sospesa tra modernità e tradizione, racconta con umorismo filosofico gli incontri e scontri tra un professore napoletano (lo stesso De Crescenzo) e un manager milanese trapiantato al sud. Ne emerge un quadro affettuoso e ironico dei napoletani, divisi tra arte di arrangiarsi e profondità di pensiero, con scene iconiche che esaltano la saggezza popolare partenopea. Seguì “Il mistero di Bellavista” (1985) e altre commedie come “32 dicembre” (1988), attraverso cui De Crescenzo continuò a esplorare vizi e virtù della sua città con tono bonario e riflessivo.
Queste opere, sebbene leggere, contribuirono a fissare nell’immaginario l’idea di Napoli come luogo brulicante di personaggi singolari e filosofia di strada, dove anche prendere un caffè al bar può diventare spunto di discussione sul senso della vita.
Non si può parlare del cinema napoletano anni ’80 senza menzionare anche attori caratteristi e registi che in quell’epoca hanno operato all’ombra del Vesuvio. Enzo Cannavale, ad esempio, fu un prolifico attore di supporto che comparve in decine di film, incarnando spesso il napoletano medio con ironia e spontaneità.
Volto familiare della commedia italiana, Cannavale affiancò sia De Crescenzo che Troisi (è presente in “Così parlò Bellavista” e in diverse commedie dell’epoca) e vinse anche un Nastro d’Argento per la sua partecipazione al capolavoro “Nuovo Cinema Paradiso” (1988) di Tornatore.
La sua capacità di strappare un sorriso con una sola occhiata o battuta dialettale lo rese uno degli ultimi grandi caratteristi napoletani, erede della tradizione di spalla comica che fu di Peppino De Filippo negli anni ’50.
Sul versante opposto, gli anni ’80 segnarono anche l’avvio di un racconto più cupo di Napoli, preludio alle narrazioni sulla camorra che sarebbero esplose in seguito. Giuseppe Tornatore scelse proprio Napoli e la sua cronaca nera per il suo esordio cinematografico “Il camorrista” (1986), film duro ispirato alla figura del boss Raffaele Cutolo.
Questa pellicola, violenta e realistica, fu tra le prime a mostrare senza filtri la malavita organizzata campana sul grande schermo, inaugurando un filone di cinema di denuncia sul tema. Verso la fine del decennio, Nanni Loy tornò su problematiche sociali con “Mi manda Picone” (1984), amara commedia ambientata tra disoccupazione e espedienti illeciti, e con “Scugnizzi” (1989), incentrato sul recupero dei ragazzi difficili attraverso il teatro, entrambe opere che mostrano il volto problematico ma umano della Napoli contemporanea.
Gli anni ’90 proseguirono su questa doppia traccia: da un lato commedia e tradizione, dall’altro sguardo sulla realtà difficile. Da ricordare c’è “L’amore molesto” (1995) di Mario Martone, tratto dal romanzo di Elena Ferrante, che esplora il rapporto madre-figlia e i segreti di famiglia ambientandoli tra i vicoli e le ombre di Napoli; un film che portò Napoli al Festival di Cannes con toni autoriali e introspettivi. Martone, regista napoletano, sarebbe divenuto un riferimento per il cinema d’autore locale anche negli anni successivi.
Nel 1997 un’opera collettiva intitolata “I vesuviani” raccolse cinque episodi diretti da giovani cineasti partenopei emergenti (tra cui spiccava un esordiente Paolo Sorrentino): fu il segnale che una nuova generazione di registi stava nascendo all’ombra del Vesuvio, pronta a rinnovare la rappresentazione cinematografica della città.
Verso la fine del decennio, la figura di Bud Spencer continuava ad essere amata: sebbene la sua produzione di film si fosse rallentata, il suo mito di attore napoletano internazionale rimaneva forte. Bud Spencer incarnava l’orgoglio partenopeo in modo forse meno esplicito (nei suoi film parlava in italiano standard), ma non perdeva occasione nelle interviste per ricordare le sue origini e il suo amore per Napoli.
La sua statura fisica e morale – un gigante buono sempre dalla parte dei deboli – era vista quasi come quella di un supereroe partenopeo ante-litteram, tanto che decenni dopo gli verrà intitolata una serie TV tribute (“Piedone a Napoli”, 2021, con un nuovo protagonista sulle orme del suo celebre commissario).
Dal 2000 ad oggi: Napoli tra cinema d’autore e serie TV globali
L’ingresso nel nuovo millennio ha portato il cinema napoletano a rinnovarsi ulteriormente, raggiungendo platee internazionali e abbracciando nuovi formati come la serie televisiva. Anzitutto, il primo ventennio dei 2000 ha visto consolidarsi registi partenopei di caratura mondiale. Paolo Sorrentino, oggi premio Oscar, ha mosso i primi passi proprio a Napoli: la sua opera autobiografica “È stata la mano di Dio” (2021) è un intenso omaggio alla Napoli degli anni ’80, vissuta da un adolescente appassionato di calcio e cinema (alter ego del regista stesso) in un mix di bellezza, dolore e mitologia personale legata all’arrivo di Maradona. Prima di questo ritorno alle origini, Sorrentino aveva spesso inserito riferimenti alla sua città nei film, pur ambientandoli altrove, e nel 2024 torna direttamente a girare a Napoli con un nuovo progetto intitolato “Parthenope”, segno di quanto la radice partenopea sia centrale anche nell’immaginario dei talenti che hanno spiccato il volo fuori dai confini locali.
Gli anni 2000-2010 hanno portato sul grande schermo anche numerose storie di camorra e marginalità sociale che hanno colpito nel segno. Il caso più eclatante è “Gomorra” (2008) di Matteo Garrone, tratto dal libro-inchiesta di Roberto Saviano: girato tra le vele di Scampia e altre zone difficili, con attori non professionisti e crudo realismo, il film ha sconvolto il pubblico globale mostrando un volto di Napoli dominato dalla criminalità organizzata. Premiato a Cannes, Gomorra ha dato vita qualche anno dopo a una omonima serie TV di enorme successo internazionale, espandendo ulteriormente l’universo narrativo criminale partenopeo. Allo stesso filone di denuncia appartiene “Fortapàsc” (2009) di Marco Risi, incentrato sull’omicidio del giornalista Giancarlo Siani negli anni ’80: una Napoli cupa e coraggiosa vi emerge, tra speranze di legalità e violenza camorrista.
Sul versante opposto, c’è chi ha voluto celebrare l’energia vitale della città: l’attore e regista americano John Turturro nel suo docu-film “Passione” (2010) ha esplorato la musica napoletana mescolando generi e generazioni, trasformando Napoli in un palcoscenico musicale vibrante, dal centro storico fino a Procida. Anche registi italiani di altre regioni hanno continuato a scegliere Napoli come set: basti pensare a Ferzan Özpetek e il suo “Napoli velata” (2017), thriller intriso di mistero e sensualità che dipinge una città esoterica, fatta di antichi rituali, arte barocca e segreti inconfessabili. Oppure “La paranza dei bambini” (2019) di Claudio Giovannesi, che racconta l’ascesa e caduta di una baby-gang nei quartieri popolari, portando sullo schermo gli adolescenti di Napoli attratti dal richiamo effimero del potere criminale.
Nel frattempo, la commedia partenopea non è scomparsa: ha semplicemente trovato nuove forme. Alessandro Siani, erede della verve comica locale, ha riscosso notevoli successi con film come “Benvenuti al Sud” (2010, ambientato in Campania, remake in chiave napoletana di una commedia francese) e soprattutto con le sue regie “Il principe abusivo” (2013) e “Si accettano miracoli” (2015). Queste opere, leggere ma apprezzate da un vasto pubblico, hanno riportato il dialetto campano e l’umorismo bonario in vetta al botteghino, mostrando come il filone comico napoletano sappia continuamente reinventarsi e attirare nuove generazioni di spettatori.
Uno sviluppo fondamentale degli ultimi anni è l’esplosione delle serie TV ambientate a Napoli, capaci di conquistare audience ben oltre i confini nazionali. Oltre alla già citata serie “Gomorra” (2014-2021), fenomeno cult di taglio crime, due titoli spiccano in particolare per popolarità e qualità:
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“L’Amica Geniale” – Tratta dai romanzi di Elena Ferrante, questa serie RAI-HBO (prima stagione nel 2018) segue l’amicizia di due ragazze in un rione popolare di Napoli dagli anni ’50 in poi. Girata in gran parte in dialetto napoletano (una scelta coraggiosa, apprezzata per autenticità), la serie ha ricostruito fedelmente la Napoli del dopoguerra, con i suoi cortili, le superstizioni e le trasformazioni sociali nel corso dei decenni. Il risultato è stato un successo internazionale: il pubblico di tutto il mondo si è appassionato alle vicende di Lila e Lenù, vivendo attraverso i loro occhi le luci e ombre di Napoli. La città, inizialmente microcosmo chiuso e povero, resta un punto di riferimento emotivo anche quando la narrazione porta i personaggi altrove: Napoli è la “geniale amica” che forma e segna per sempre chi vi è nato.
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“Mare Fuori” – Arrivata quasi in sordina nel 2020 sulla RAI, questa serie ambientata in un immaginario carcere minorile sul mare di Napoli è divenuta in breve un fenomeno di costume, specialmente tra i giovani. Mare Fuori racconta le storie difficili ma ricche di umanità di ragazzi detenuti provenienti da contesti criminali e famiglie complicate, e lo fa con un linguaggio crudo ma intriso di speranza e voglia di riscatto. Sullo sfondo c’è sempre Napoli, visibile dalla prigione come meta agognata e minacciosa al tempo stesso: il mare di Napoli diventa metafora di libertà ma anche dell’orizzonte incerto che attende questi giovani. Il successo della serie (giunta alla terza stagione e distribuita anche su piattaforme streaming internazionali) conferma come Napoli continui a ispirare narratori contemporanei, offrendo storie dal forte impatto emotivo e sociale. Non a caso, molte location cittadine usate nella serie – dalla scenografica base navale di Molo San Vincenzo alle strade dei quartieri popolari – sono diventate mete di tour per fan in visita a Napoli.
L’ultimo periodo ha visto Napoli tornare protagonista anche grazie al lavoro di registi affermati come Mario Martone, che con “Nostalgia” (2022) ha rappresentato il complesso rapporto di un uomo di ritorno alla sua Napoli dopo anni all’estero, scontrandosi con ricordi e conti in sospeso nel ventre di Sanità. Martone, già da tempo, alterna teatro e cinema mantenendo salde le radici partenopee (suo anche “Il sindaco del Rione Sanità”, 2019, trasposizione dell’opera di Eduardo in chiave contemporanea). In parallelo, nuove produzioni continuano a sbocciare: “Mixed by Erry“ (2023) di Sydney Sibilia, pur diretto da un non-napoletano, racconta in toni frizzanti l’incredibile storia vera di tre fratelli di Forcella che negli anni ’80 misero in piedi un impero illegale di musicassette taroccate, trasformando Napoli nella capitale piratesca della musica pop. È un esempio di come le storie napoletane possano spaziare dal dramma sociale alla cronaca curiosa, sempre con un piglio narrativo coinvolgente.
Guardando al presente, il cinema napoletano si mostra dunque più vivo che mai: sa offrire commedie leggere e film d’autore, biopic storici e serie TV di successo planetario, mantenendo però un filo rosso che è la potente caratterizzazione della città e della sua gente.
Napoli come set e personaggio cinematografico
Cosa rende Napoli così affascinante per cineasti di ogni provenienza? Molto sta nella sua capacità di essere un set naturale incredibilmente duttile. Pochi luoghi al mondo offrono, in uno spazio relativamente ristretto, una varietà di scenari così eterogenei: la cartolina mozzafiato del lungomare di via Caracciolo, con il Castel dell’Ovo che si staglia sullo sfondo; i vicoli stretti e vivi di Spaccanapoli e dei Decumani, dove il bucato steso tra i balconi diventa elemento di scenografia; le colline del Vomero e di Posillipo da cui dominare la città dall’alto; le aree popolari come Forcella, Sanità o Scampia che testimoniano realtà dure e autentiche; senza dimenticare simboli unici come la Napoli sotterranea, le catacombe, o il cimitero delle Fontanelle, scenari perfetti per narrazioni dal sapore esoterico e misterioso.
Non stupisce che registi come Özpetek abbiano colto in questa città un’aura magica – Napoli velata appunto, avvolta in veli di superstizione e passione – mentre altri come Rosi o Garrone ne abbiano sfruttato la faccia opposta, cruda e spoglia, per storie di denuncia.
Ma Napoli non è solo sfondo passivo: spesso la città interagisce con i personaggi, li modella, li ispira o li ostacola, diventando essa stessa una presenza attiva nella trama. In “Matrimonio all’italiana” (1964), ad esempio, la Napoli degli anni ’50 con la sua moralità fluida permette alla protagonista Filumena (Sophia Loren) di orchestrare il suo abile stratagemma sentimentale; la mentalità aperta e insieme tradizionalista della città è parte del gioco narrativo. In “Così parlò Bellavista”, la contrapposizione tra il frenetico Nord industriale e la filosofica indolenza napoletana fornisce il contesto per gag e riflessioni: Napoli insegna al settentrionale Cazzaniga la bellezza di perdere tempo gustando un caffè e guardando il mare.
Nel poliziesco, la topografia cittadina diventa terreno di gioco: basti pensare agli inseguimenti di Piedone lo sbirro tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli o sul porto, dove la conoscenza del territorio da parte del commissario Rizzo è la sua arma segreta contro i criminali forestieri. Allo stesso modo, in “Gomorra” (sia film che serie) i rioni di periferia, con la loro architettura alienante, influenzano la psicologia dei personaggi, quasi schiacciati dal cemento dei palazzoni o intrappolati nel dedalo di stradine senza uscita: la città diventa metafora di un destino, di un sistema chiuso difficile da lasciarsi alle spalle.
Napoli riesce poi come poche altre città a essere rappresentata in molteplici registri: può essere luminosa e romantica, palcoscenico di storie d’amore e commedia degli equivoci, oppure cupa e infernale, scenario di crimine e degrado. In “Viaggio in Italia” (1954) di Roberto Rossellini, la visita ai Campi Flegrei, al Vesuvio e al Museo Archeologico (con i calchi di Pompei) suscita nei protagonisti una profonda crisi esistenziale: Napoli qui è maestra di impermanenza, con la sua storia millenaria e la convivenza quotidiana con la morte (si pensi al culto delle anime pezzentelle al cimitero delle Fontanelle). Di contro, in un classico come “Pane, amore e…” (1955) con Vittorio De Sica e Sophia Loren, l’isola di Capri e la Napoli da cartolina fanno da sfondo a una leggera commedia sentimentale, dimostrando la versatilità del paesaggio partenopeo nel servizio della narrazione cinematografica.
Insomma, Napoli sullo schermo è camaleontica: un giorno seducente sirena (non a caso Parthenope è il suo nome mitologico), un altro madre severa, un altro ancora teatro di miserie e nobiltà umane. Ogni regista che la filma ne coglie un aspetto diverso, ma sempre autentico. E il pubblico, attraverso questi sguardi molteplici, impara a conoscerla in tutte le sue sfumature, quasi stesse seguendo l’evoluzione di un personaggio complesso e affascinante film dopo film.
I protagonisti del cinema partenopeo: attori e registi leggendari
La storia dei film napoletani è anche e soprattutto la storia di grandi attori e registi napoletani che hanno inciso il loro nome nel panorama cinematografico italiano e internazionale. In questa sezione approfondiamo alcune figure chiave – veri e propri monumenti della cultura partenopea su pellicola – il cui contributo è stato fondamentale nel definire l’identità del cinema di Napoli.
Totò, il Principe della risata partenopea
Impossibile non iniziare da Totò, al secolo Antonio de Curtis (1898-1967). Nato nel Rione Sanità, Totò è considerato uno dei più grandi attori comici italiani di sempre, nonché emblema stesso della comicità napoletana. Con oltre 90 film all’attivo, ha attraversato tre decenni di cinema portando sullo schermo una maschera inconfondibile: il viso elastico, lo sguardo stralunato e quella mimica corporea da vero acrobata della risata. Lo chiamavano “il Principe della risata” sia per nobili origini (aveva titolo nobiliare ereditario) sia per l’indiscusso regno esercitato nel cuore del pubblico. Totò seppe far ridere generazioni di italiani con un umorismo surreale, punteggiato da proverbiali battute in dialetto e giochi di parole fulminanti. Molti dei suoi film non erano ambientati specificamente a Napoli, ma il suo spirito partenopeo era sempre presente: celebri sono i duetti con Peppino De Filippo in cui i due, fingendosi milanesi o immersi in contesti “stranieri”, rivelano però tutta la loro napoletanità in equivoci esilaranti (come nella lettera dettata “Signorine vi salutano tanto i miei zii…” in Totò, Peppino e la malafemmina). Totò portò al cinema la tradizione del teatro di avanspettacolo e del varietà, rinnovandola con tempi comici perfetti e un’umanità di fondo che traspariva anche dietro i personaggi più strampalati. Oltre alla verve comica, possedeva un lato attoriale drammatico poco sfruttato, che emerse in rare occasioni (vedi “Uccellacci e uccellini” di Pasolini nel 1966, dove interpretò un poetico vagabondo). A decenni dalla scomparsa, Totò resta nel dialetto quotidiano (molti suoi modi di dire sono diventati proverbi) e nell’immaginario collettivo come la maschera di Napoli per eccellenza – irriverente, generosa, fatalista e profondamente umana.
Eduardo De Filippo, il teatro napoletano che diventa cinema
Se Totò è stato il re della risata popolare, Eduardo De Filippo (1900-1984) rappresenta il volto colto e drammatico della cultura napoletana nel Novecento. Nato anche lui nella Sanità, figlio naturale del commediografo Eduardo Scarpetta, Eduardo dominò la scena teatrale del ‘900 con le sue commedie in dialetto divenute classici (da Napoli Milionaria! a Filumena Marturano, da Questi fantasmi! a Natale in casa Cupiello). Ma Eduardo fu anche uomo di cinema in vari ruoli: attore, sceneggiatore e regista.
Portò sul grande schermo alcune delle sue opere teatrali, curandone spesso la regia per mantenerne intatta l’autenticità. Il già citato “Napoli milionaria” (1950) segnò il suo esordio registico cinematografico, offrendo una rappresentazione intensa e amara della città postbellica. In seguito diresse e interpretò la versione filmica di “Filumena Marturano” (1951), prima che la storia venisse nuovamente adattata da Vittorio De Sica nel 1964 col titolo Matrimonio all’italiana. Eduardo non disdegnò di collaborare con altri grandi registi: ad esempio recitò in “Roma città aperta” (1945) di Rossellini – sebbene in una parte poi tagliata in fase di montaggio – e comparve in “Il giudizio universale” di De Sica.
La sua performance più nota sullo schermo resta forse quella in “Ieri, oggi, domani” (1963), dove in un episodio interpreta magistralmente un guappo (boss di quartiere) dall’aria minacciosa ma dal cuore tenero. Eduardo portò davanti alla cinepresa l’intensità e la verità del suo teatro: le sue interpretazioni cinematografiche spiccano per l’understatement, il controllo dei gesti e della voce, la capacità di passare dal comico al tragico in un sospiro – tratti distintivi del suo stile recitativo. Oltre a Eduardo, va ricordato che anche i suoi fratelli Peppino De Filippo e Titina De Filippo furono attori cinematografici di rilievo: Peppino in particolare divenne celebre come spalla comica di Totò, formando con lui una coppia memorabile in film come La banda degli onesti, Totò Peppino e i fuorilegge, Totò, Peppino e la malafemmina e tanti altri, dove incarnava spesso il napoletano trapiantato a Roma o al nord, con irresistibili effetti comici.
L’eredità dei De Filippo nel cinema risiede nell’aver portato la dignità del dialetto napoletano e della drammaturgia partenopea classica in un contesto più ampio, dando profondità ai personaggi popolari e mostrando che Napoli poteva offrire storie universalmente valide dalla sua tradizione locale.
Bud Spencer, il gigante buono partenopeo amato nel mondo
Carlo Pedersoli, universalmente noto come Bud Spencer (1929-2016), rappresenta un esempio unico di attore napoletano diventato icona globale al di fuori dei canoni tradizionali. Nato a Santa Lucia, quartiere affacciato sul mare, Bud in gioventù fu addirittura un campione di nuoto (primo italiano a infrangere il minuto nei 100m stile libero). Ma è il cinema a dargli fama imperitura, quando negli anni ’60 inizia la fortunata collaborazione con Terence Hill. Insieme, la coppia Pedersoli/Girotti – ribattezzati Bud Spencer e Terence Hill – darà vita a decine di pellicole di successo, dagli spaghetti-western scanzonati come “Lo chiamavano Trinità…” alle scazzottate contemporanee di “Altrimenti ci arrabbiamo!”.
Sebbene queste commedie d’azione non fossero specificamente ambientate a Napoli, l’identità partenopea di Bud Spencer affiora orgogliosamente in alcuni ruoli e nella sua figura di uomo semplice, bonario ma capace di imporsi contro i prepotenti. Il legame con la sua città natale si concretizzò sullo schermo soprattutto nella serie di film di Piedone, diretti da Steno negli anni ’70: in “Piedone lo sbirro” (1973) e seguiti, Bud interpreta il commissario Rizzo, poliziotto verace e manesco dei vicoli napoletani, impegnato a mantenere l’ordine con metodi non proprio ortodossi ma efficaci. Vederlo attraversare Piazza del Plebiscito o arrampicarsi nei quartieri popolari a caccia di delinquenti rese felici tanti concittadini, che in lui riconoscevano il gigante buono di Napoli. Bud Spencer stesso, nonostante la lunga permanenza a Roma e il successo internazionale, non perse mai occasione di dichiararsi “napoletano doc”.
La sua figura burbera ma dal cuore d’oro incarna un tipo di napoletano meno stereotipato: taciturno, massiccio, amante della buona cucina (celebre la passione dei suoi personaggi per fagioli e birra) e con un ferreo codice morale. Alla sua morte, Napoli gli ha tributato omaggi sentiti – dallo stadio San Paolo illuminato in suo onore al murale nel quartiere di Santa Lucia – a dimostrazione che Bud Spencer rimane uno dei figli prediletti di Partenope, un vero mito cittadino prestato al mondo del cinema.
Massimo Troisi, la poesia quotidiana di Napoli
Massimo Troisi (1953-1994) è una figura amatissima, il cui nome evoca immediatamente un sorriso dolceamaro. La sua prematura scomparsa a soli 41 anni ha contribuito a mitizzarlo, ma già in vita Troisi era considerato uno dei più grandi attori e registi comici italiani del dopoguerra. La sua peculiarità fu di rivoluzionare l’immagine del napoletano sullo schermo: con Troisi arrivò un tipo di comicità sommessa, introversa e moderna. A differenza dei comici del passato, il suo personaggio parlava a bassa voce, borbottava in dialetto, esitava; un timido cronico, osservatore acuto delle piccole cose. E proprio in questo rivoluzionò la commedia napoletana. Il suo esordio “Ricomincio da tre” è emblematico: il giovane Gaetano lascia San Giorgio a Cremano per cercare fortuna a Firenze, e nelle sue avventure emergono tutte le insicurezze e i paradossi identitari di un ragazzo del Sud che prova a emanciparsi senza tradire le proprie origini. Troisi scrisse, diresse e interpretò i suoi film portando molto di sé stesso nei personaggi, tant’è che il pubblico li percepiva autentici.
La parlata napoletana, resa comprensibile a tutti senza rinunciare alla sua musicalità, divenne cool anche tra i giovani del nord, che ne citavano le battute. Pellicole come “Scusate il ritardo”, con il memorabile sfogo sull’amicizia tradita, o “Pensavo fosse amore…”, con la sua malinconica riflessione sull’amore e il disincanto, hanno una qualità quasi teatrale nei dialoghi, eredità della formazione di Troisi ma anche della grande tradizione di Eduardo di cui Massimo era un ammiratore. Lo stesso Eduardo De Filippo, prima di morire, disse di Troisi: “Ha raccolto la mia eredità, ma cammina con le sue gambe”. Una frase che sintetizza bene come Troisi fosse considerato l’erede morale dei grandi del passato, pur avendo una voce nuova. La consacrazione internazionale con “Il postino”, girato nonostante le gravi condizioni di salute dell’attore, fu il suggello finale: Troisi investì in quel film tutta la sua sensibilità poetica, creando un personaggio – il postino Mario Ruoppolo – ingenuo e profondo, che rappresenta l’anima semplice e sognatrice di un popolo.
Con le sue opere, Troisi ha insegnato che la napoletanità può essere sussurrata ed elegante, che si può far ridere e commuovere parlando di piccole vicende quotidiane. La sua eredità è viva ancora oggi: non c’è giovane autore o attore campano che non lo citi come ispirazione, e la sua figura resta un ponte tra la Napoli antica dei sentimenti e quella moderna delle inquietudini giovanili.
Enzo Cannavale, il caratterista che ha dato voce al popolo
Meno noto al grande pubblico internazionale, ma carissimo ai napoletani, è Enzo Cannavale (1928-2011). Se Totò e Troisi erano protagonisti, Cannavale è stato l’uomo di contorno che ha impreziosito tantissimi film con la sua presenza.
Prolifico come pochi (oltre 100 film interpretati), lo si ricorda come spalla, amico del protagonista, comparsa di lusso in innumerevoli scene che spesso rubava grazie a un guizzo di simpatia. Proveniente dal teatro di rivista e dalla scuola di Eduardo (calcò le scene con la compagnia De Filippo agli inizi della carriera), Cannavale portava con sé quel bagaglio di spontaneità e tempi comici perfetti che lo resero richiestissimo soprattutto nelle commedie degli anni ’70 e ’80.
Lo troviamo accanto a Bud Spencer in Piedone, accanto a Troisi in “Le vie del signore sono finite” (dove interpreta il padre) e in altre pellicole partenopee, ccanto ad attori come Renato Pozzetto e Nino Manfredi in ruoli minori ma sempre efficaci.
Memorabile la sua interpretazione in “32 Dicembre” di Luciano De Crescenzo, per il quale gli fu assegnato il Nastro d’argento come attore non protagonista. . Ma Cannavale seppe cavarsela egregiamente anche in contesti più impegnati: Giuseppe Tornatore lo volle in “Nuovo Cinema Paradiso”, affidandogli il ruolo DI Ciccio Spaccafico che, dopo aver vinto alla lotteria, finanzia la ricostruzione del cinema del paese , che si chiamerà Nuovo Cinema Paradiso.
Marco Ferrreri l’ha voluto invece nelle vesti di avvocato nel film “La casa del sorriso” , film vincitore dell’Orso d’Oro del Festival di Berlino nel 1991
Enzo Cannavale incarna la figura del napoletano medio sullo schermo: bonario, chiacchierone, a volte un po’ furbastro, ma fondamentalmente di buon cuore. Con la sua scomparsa, il cinema italiano ha perso uno degli ultimi grandi caratteristi partenopei, un volto familiare che sapeva dare autenticità popolare a ogni scena, come il sapore del vero pepe in un piatto tradizionale.
Luciano De Crescenzo, il filosofo ironico di Napoli
Un protagonista anomalo ma importantissimo è Luciano De Crescenzo (1928-2019). Diversamente dagli altri nomi citati, De Crescenzo arrivò al cinema in età matura e dopo aver svolto tutt’altro mestiere (ingegnere all’IBM). Eppure, il suo contributo come regista, sceneggiatore e attore offrì una prospettiva nuova della napoletanità anni ’80. Con i suoi occhiali spessi e l’aria da professore bonario, De Crescenzo portò nelle sale la Napoli della filosofia quotidiana. In “Così parlò Bellavista”, dov’era egli stesso interprete del professor Bellavista, mise in scena una serie di quadri di vita condominiale e cittadina che evidenziano la saggezza e le contraddizioni del popolo napoletano: celebri i suoi monologhi sul “uomo d’amore” (tipico del Sud) contrapposto all’”uomo di libertà” (tipico del Nord), o la scena del “cavalluccio rosso” sul balcone che diventa metafora dell’arte di arrangiarsi.
De Crescenzo aveva il dono di far sorridere facendo al tempo stesso pensare: i suoi film sono costellati di citazioni colte e aneddoti storici, ma raccontati in modo accessibile, come faceva nei suoi libri divulgativi. Napoli nei suoi racconti filmici è calorosa, un po’ stralunata, popolata di personaggi strambi ma reali – dal “Sindaco di Via Olivella” che dirige il traffico dal marciapiede, al salumiere filosofo, fino al camorrista cortese interpretato da Benedetto Casillo. Dopo il successo di Bellavista, De Crescenzo continuò con “Il mistero di Bellavista”, altra commedia a episodi che sfiora il giallo, e “32 dicembre” (1988), tre storie paradossali ambientate a Napoli a Capodanno, fra cui spicca quella dell’uomo che scopre in anticipo la data della propria morte.
Pur senza la pretesa del grande cinema d’autore, questi film rappresentano uno spaccato fedelissimo della mentalità partenopea del periodo, osservata con affetto e lieve malinconia da un intellettuale che non ha mai rinnegato le sue origini popolari. De Crescenzo nelle vesti di attore portava sullo schermo la propria personalità: un signore di Napoli gentile e arguto, capace di discutere di Platone al bar tra un caffè e un babà. La sua eredità è duplice: da un lato ha divertito un vasto pubblico, dall’altro ha contribuito a nobilitare l’immagine di Napoli, presentandola come culla di pensiero e non solo di macchiette.
Altri volti e nomi illustri
L’elenco dei protagonisti partenopei potrebbe continuare a lungo. Non possiamo non menzionare Sophia Loren, cresciuta a Pozzuoli, che sebbene diventata icona internazionale incarna spesso in ruoli e temperamento la donna napoletana verace (basti pensare a “Pane, amore e…” o “Matrimonio all’italiana”, e al suo Oscar per La ciociara, che comunque la consacrò come attrice dal profondo radicamento mediterraneo). Loren ha sempre rivendicato l’orgoglio di essere “una ragazza del sud” e ha spesso recitato in dialetto napoletano quando i copioni lo richiedevano.
Tra i registi, un nome da citare di diritto è Vittorio De Sica: pur non essendo nato a Napoli, si considerava in parte napoletano per formazione e affetti (suo padre era di origini campane), e a Napoli ha dedicato diversi capolavori come L’oro di Napoli e Matrimonio all’italiana. De Sica capì e amò Napoli, dirigendo con finezza star come Loren e Mastroianni in vicende partenopee che hanno fatto scuola. In tempi più recenti, il già citato Francesco Rosi è stato uno dei massimi esponenti del cinema civile europeo, e portava con sé uno sguardo “napoletano” lucido e impegnato ovunque girasse. Mario Martone, Paolo Sorrentino, Antonio Capuano – per citare alcuni registi napoletani contemporanei – hanno continuato in modo diverso la tradizione: Martone riportando spesso i classici (teatrali e letterari) della città al cinema, Sorrentino donando uno stile visionario e moderno all’identità partenopea, Capuano raccontando con realismo e cuore le periferie e i giovani.
Anche tra gli attori recenti, figure come Toni Servillo (casertano di nascita, ma formato nel teatro napoletano) hanno dato voce a personaggi partenopei intensi – ad esempio il camorrista educato de “Il divo” o il cantautore tormentato di “Passione” – mostrando la versatilità interpretativa che fiorisce all’ombra del Vesuvio.
In definitiva, la scuola napoletana di cinema si è arricchita nel tempo di tantissimi artisti: chi con la comicità, chi con la drammaticità, chi dietro la macchina da presa, tutti hanno contribuito a creare un immaginario composito. Dai teatri di posa Titanus nati al Vomero agli studi di Cinecittà, i napoletani si sono fatti valere ovunque, mantenendo però quell’inconfondibile tratto di umanità e passione che deriva dalla loro terra.
L’eredità e il futuro del cinema napoletano
Ripercorrendo questo viaggio tra film ambientati a Napoli, volti leggendari e luoghi cinematografici, appare chiaro come Napoli sia molto più che uno sfondo: è un motore inesauribile di storie. Il cinema napoletano ha saputo reinventarsi in ogni epoca, riflettendo i cambiamenti della società e nel contempo preservando un’identità forte. Dal dopoguerra povero ma dignitoso, immortalato dal bianco e nero neorealista, si è passati alle commedie coloratissime degli anni ’50 e ’60, alle denunce degli anni ’70, alla nuova ironia introspettiva degli ’80, fino alle sperimentazioni e aperture globali del nuovo millennio. Ogni fase ha aggiunto un tassello al mosaico.
Oggi Napoli è considerata a pieno titolo una delle capitali culturali della cinematografia italiana. La città continua ad attrarre produzioni da tutto il mondo, complice anche il lavoro della Film Commission regionale che supporta logistica e talento locale. Le serie TV di successo hanno riportato in auge quartieri e dialetto, creando un circolo virtuoso per cui i giovani tornano a essere fieri del proprio accento e della propria storia, vedendoli rappresentati sullo schermo con dignità e realismo. Allo stesso tempo, l’industria cinematografica campana forma nuove leve: attori emergenti, registi esordienti, tecnici preparati stanno venendo alla ribalta, assicurando continuità a questa tradizione.
L’eredità dei grandi del passato – Totò, Eduardo, Troisi, Loren, solo per citarne alcuni – non va sprecata, anzi viene riletta e celebrata in festival, retrospettive, intitolazioni di teatri e vie cittadine. Ciò testimonia un forte legame tra Napoli, la sua gente e il cinema che la racconta. Quando una pellicola partenopea riesce a sfondare oltre i confini (che sia un Oscar a Sorrentino, un premio a Venezia, o il clamore social di Mare Fuori), l’orgoglio locale si accende come un fuoco di gioia collettiva.
Guardando al futuro, possiamo aspettarci che Napoli continui a essere set e protagonista di tante narrazioni. Le sue storie, infatti, sono lungi dall’essere esaurite: ogni vicolo nasconde un possibile film, ogni famiglia una saga, ogni melodia un commento sonoro. Il fascino partenopeo, con le sue contraddizioni e la sua inesauribile umanità, resta una miniera creativa a cui attingere. Il cinema napoletano, quindi, non è solo un capitolo della storia del cinema italiano: è una corrente viva e fluida, in grado di rinnovarsi restando fedele a sé stessa.
Proprio come la città di Napoli – immortale e in perenne cambiamento – anche la rappresentazione filmica di Napoli continuerà a sorprenderci, emozionarci e farci riflettere, mantenendo sempre quel sapore unico che la rende riconoscibile: un sapore fatto di verità, passione e un pizzico di magia.
In conclusione, parlare di film napoletani significa parlare di un modo di fare cinema profondamente umano e genuino. Significa ricordare risate fragorose esplose in piccole sale affollate di quartiere, lacrime versate in silenzio davanti a tramonti sul golfo proiettati sullo schermo, applausi scroscianti a fine proiezione quando ci si sente orgogliosamente rappresentati.
Napoli continuerà a far parlare di sé al cinema, perché è un teatro vivente di storie infinite. E noi, da spettatori, non possiamo che attendere il prossimo film o la prossima serie con la certezza che, ancora una volta, la città di Pulcinella e Partenope saprà offrirci qualcosa di speciale, capace di far vibrare le corde dell’anima come solo le grandi opere sanno fare. Napoli, dopotutto, è cinema. Un cinema a cielo aperto, che si rinnova ogni giorno tra la realtà e la leggenda.