Sappiamo che oggi la cucina napoletana è una tra le più buone ed apprezzate in Italia e nel mondo. Ma cosa si mangiava a Napoli durante il Medioevo?
Napoli, nel corso del Medioevo, si sviluppò come una delle città più importanti d’Europa, crocevia di commerci e sede di un’intensa attività artigianale e mercantile. Tuttavia, il problema dell’approvvigionamento alimentare era sempre centrale, specialmente per una popolazione in crescita. Il mercato cittadino era regolato da precise disposizioni, con tassazioni su prodotti essenziali come pane, carne e pesce.
Le Assise in rebus venalibus garantivano il controllo dei prezzi e delle modalità di vendita, assicurando l’accesso ai beni alimentari nelle cosiddette platee, luoghi designati per la distribuzione dei generi di largo consumo.
Pane e cereali: la base dell’alimentazione
Il pane era il fondamento della dieta di tutte le classi sociali, ma la sua qualità variava sensibilmente in base allo status economico.
La nobiltà consumava pane bianco di farina raffinata, mentre il popolo doveva accontentarsi di varietà più grossolane, spesso mescolate con crusca, segale e altri cereali minori.
Il pane veniva prodotto nelle domus Panis Curie, ed era regolamentato in peso e prezzo per evitare speculazioni. Oltre al pane, la popolazione consumava biscotti secchi, simili alle gallette, particolarmente diffusi tra marinai e viaggiatori.
La carne e il suo consumo selettivo
Il consumo di carne era regolamentato e non accessibile a tutti. Il macello pubblico, ubicato nel quartiere del Moricino, forniva carne di montone, maiale, capra e bovini, con differenze di prezzo che ne determinavano l’accessibilità.
Il Moricino corrisponde oggi all’area di Piazza Mercato a Napoli. Durante il Medioevo, questa zona era un importante centro economico e commerciale, particolarmente dedicato alle attività di macellazione, vendita di carne e di altri generi alimentari. Era situata vicino al porto, il che facilitava l’arrivo di merci e bestiame via mare, specialmente dalle isole e dalle città costiere della Campania.
Nel corso dei secoli, l’assetto urbanistico è cambiato, ma Piazza Mercato ha mantenuto un ruolo centrale nella vita commerciale della città, diventando famosa anche per eventi storici rilevanti, come l’esecuzione di Masaniello nel XVII secolo.
La nobiltà prediligeva carne di capretto, castrato e vitelle importate da Sorrento e Capri, mentre le classi più basse acquistavano tagli meno pregiati come testa e zampe di maiale. I macellai operavano sotto stretta sorveglianza, e ogni transazione era soggetta a tassazione. Le frattaglie erano molto diffuse tra le classi meno abbienti, spesso cucinate con spezie ed erbe aromatiche per migliorarne il sapore.
La macellazione degli animali si svolgeva nella zona del Moricino, non lontano dalla domus Panis Curie.
Bovini, ovini e suini venivano trasportati in città dalle campagne circostanti, mentre le vitelle provenienti da Sorrento e Capri arrivavano via mare. La struttura adibita a questo scopo, chiamata Buczaria, si trovava in condizioni precarie e i macellai lavoravano senza un’organizzazione precisa.
Per migliorare il controllo sull’attività, nel 1270 si decise di ristrutturare l’edificio, rinforzandone le parti in muratura e aggiungendo una copertura in legno, sostenuta da travi, con due grandi arcate alle estremità.
Già dall’epoca sveva, i macellai e i commercianti di carne erano tenuti a pagare un tributo alla Curia regia per ogni animale macellato. Successivamente, Carlo I d’Angiò, per far fronte a necessità finanziarie, introdusse una tassa temporanea che prevedeva un incremento sul prezzo dell’assisa, aggiungendo un quarto di grano per ogni rotolo di carne venduto.
Anche la commercializzazione del pollame era soggetta a regolamentazione e avveniva in un’area specifica della città, denominata Pulleria di Napoli, la cui ubicazione esatta non è nota. Qui i venditori erano obbligati a portare i volatili affinché fossero venduti ai pollivendoli locali.
Il pesce: alimento quotidiano e bene di lusso
Il pesce aveva un ruolo fondamentale nell’alimentazione medievale, soprattutto nei giorni di astinenza imposti dalla Chiesa. La città si riforniva tramite un sistema regolamentato di pesca e vendita, con il mercato principale situato presso la Pietra del Pesce.
I pescatori locali portavano le loro catture direttamente agli acquirenti, mentre il pesce più pregiato come triglie, dentici e orate era destinato alle mense aristocratiche. Il tonno, pescato nelle tonnare reali di Procida e Pozzuoli, era un prodotto di lusso, spesso conservato sotto sale per la lunga conservazione.
La vendita all’ingrosso del pesce fresco avveniva nelle immediate vicinanze delle zone di pesca. I pescatori attraccavano le loro imbarcazioni sulla spiaggia del Moricino, in un punto noto come la Pietra del Pesce, situato nei pressi di un approdo portuale. Qui giungevano i mercanti, sia di giorno che di notte, salvo condizioni di mare avverso che impedivano le operazioni.
Essendo il pesce soggetto a tassazione, la sua vendita era consentita esclusivamente in questo luogo, dove veniva esposto in bella vista per garantirne la freschezza. In caso di pioggia, i commercianti potevano utilizzare alcune botteghe di proprietà del demanio, aperte appositamente per accogliere i venditori. Data la sua natura facilmente deperibile, non era consentito portarlo a casa per rivenderlo successivamente o conservarlo a lungo. La vendita all’ingrosso avveniva in modo regolamentato e senza costi aggiuntivi diretti, ma ogni pescatore doveva corrispondere al gabelliere un tributo fisso di un tarì e dieci grani per ogni oncia di pesce pescato ogni mese, subendo talvolta vessazioni da parte degli esattori.
In questo mercato, l’incaricato del re aveva il privilegio di selezionare per primo il pesce destinato alla cucina reale. Anche i tavernieri potevano acquistarlo per prepararlo e venderlo già cotto ai loro clienti, ma per evitare speculazioni e garantire ai pescivendoli la possibilità di commerciare per primi, gli acquisti da parte dei tavernai erano consentiti solo a partire dalla metà della mattinata, mentre nei giorni di digiuno l’orario di vendita per loro era posticipato al pomeriggio. In ogni caso, il commercio di pesce non poteva avvenire nelle ore notturne.
Il ruolo dei legumi e delle verdure
Per la popolazione meno abbiente, verdure e legumi rappresentavano una parte fondamentale della dieta. Cavoli, cipolle, porri, bietole e lattughe erano coltivati negli orti cittadini e nelle campagne circostanti. I legumi, come fave, ceci e fagioli, erano alla base di zuppe e minestre, spesso arricchite con pezzi di carne salata o lardo per conferire maggiore sapore e sostanza. L’uso delle spezie, come pepe e zafferano, era diffuso tra le classi più ricche, mentre i ceti popolari facevano affidamento su erbe aromatiche locali come il prezzemolo e la menta.
Uno degli alimenti più diffusi a Napoli nel Medioevo, sia tra la nobiltà che tra le classi popolari, era rappresentato da verdure e legumi. Sebbene inizialmente non fossero regolamentati nelle Assise del 1306, il loro ruolo nella dieta cittadina divenne così rilevante che nel 1400 re Ladislao concesse esenzioni fiscali agli ortolani e ai produttori di ortaggi. Gli ortaggi venivano coltivati in orti e giardini urbani, spesso di piccole dimensioni, situati tra le strette vie della città o all’interno di chiostri monastici. La vendita avveniva principalmente tramite ortolani e venditori ambulanti, che trasportavano i prodotti in ceste e gerle, distribuendoli per le strade.
Con l’aumento della popolazione e la crescente necessità di cibo, si incentivò lo sfruttamento delle aree più vicine alla città per la produzione agricola. Tra Porta Forcella, il Mercato Nuovo e Monteoliveto si svilupparono coltivazioni di verdure a foglia larga, legumi come fave e fagioli rossi, oltre ad alberi da frutto. A ovest, lungo le pendici di Pizzofalcone fino alla Riviera di Chiaia, piccoli appezzamenti ospitavano orti e vigneti. La produzione si estese ben oltre le mura cittadine, favorendo il recupero di terreni paludosi che, grazie a una migliore irrigazione, divennero fertili per la coltivazione. Ad est, nelle zone attraversate dal fiume Sebeto, vicino a Porta Capuana, Carlo II promosse nel 1308 un’opera di canalizzazione per favorire la crescita di rape, cavoli, lattughe, cocomeri, cetrioli, fichi e altre colture. Anche i terreni bonificati tra San Giorgio a Cremano e San Giovanni a Teduccio furono destinati a nuove coltivazioni, mentre un abbondante rifornimento di verdure e legumi proveniva dalle campagne di Ponticelli, Pazzigno, Volla e altri centri agricoli limitrofi.
A differenza degli ortaggi, la frutta era meno diffusa nella dieta quotidiana. Alberi di pero, prugno di Damasco, fico, agrumi e nocciole erano presenti nei giardini monastici e in quelli privati della nobiltà, ma raramente raggiungevano i mercati cittadini. In alcuni casi, alberi da frutto venivano piantati per scopi ornamentali, come avvenne nel chiostro del monastero di San Martino o nei giardini reali, dove venivano importati esemplari dalla Costiera Sorrentina. Tuttavia, anche a corte, il consumo di frutta sembrava piuttosto limitato.
Una testimonianza del XVII secolo, fornita dal cuoco Antonio Latini, indica le zone tradizionali di produzione agricola: i finocchi di Poggioreale, le verdure di Padule, i piselli, i carciofi e i ravanelli di Chiaia, le insalate e i frutti di Posillipo. Molte di queste coltivazioni erano già presenti nei secoli precedenti e rifornivano quotidianamente la città.
Verdure a foglia come cavoli, bietole, spinaci e lattuga erano un elemento imprescindibile nell’alimentazione di tutte le classi sociali. La minestra di verdure (potagium) era consigliata persino nelle leggi suntuarie del 1290 per la nobiltà, spesso accompagnata da carne salata secondo la tradizione “more ultramontano”. Alla mensa reale, le verdure erano preparate in modo più elaborato, con ingredienti come latte, cipolle e zucca.
Anche i legumi avevano un ruolo centrale nella cucina medievale. Le cronache riportano frequenti acquisti di fave e piselli per la corte, mentre il Liber de Coquina presenta numerose ricette con ceci, fagioli e lenticchie. Spesso, ingredienti semplici come castagne e radici di prezzemolo venivano utilizzati per arricchire i piatti e conferirgli maggiore sapore.
Le differenze sociali si riflettevano anche nel modo di consumare questi alimenti: per la popolazione meno abbiente, una zuppa di verdure con qualche pezzo di carne salata rappresentava un pasto completo, mentre per l’aristocrazia era solo un contorno, arricchito da spezie pregiate come pepe e zafferano.
I prodotti caseari e il loro consumo
Il formaggio rappresentava un elemento fondamentale nell’alimentazione medievale, consumato trasversalmente da tutte le classi sociali, sebbene fosse maggiormente diffuso tra il popolo piuttosto che tra la nobiltà. Considerato un alimento nutriente ed economico, era spesso utilizzato come companatico o aggiunto a minestre e zuppe per aumentarne il valore calorico. La sua versatilità lo rendeva adatto alla conservazione a lungo termine, una caratteristica essenziale in un’epoca in cui l’accesso costante a cibo fresco non era garantito.
Tra i formaggi più apprezzati vi erano i caciocavalli pugliesi e siciliani, prodotti particolarmente pregiati per il loro sapore intenso e la lunga stagionatura, che ne permetteva il trasporto e la commercializzazione anche fuori dalle regioni d’origine. Le provole secche, anch’esse molto diffuse, venivano consumate soprattutto dai ceti mercantili e dagli artigiani. Per le classi più umili, invece, erano più comuni formaggi freschi, come la ricotta, che veniva spesso accompagnata a verdure crude o utilizzata per arricchire pietanze semplici come le focacce. Un altro formaggio diffuso era il cacio salato, dal sapore forte e deciso, che veniva utilizzato per insaporire piatti poveri a base di legumi e verdure.
Il ruolo dei monaci nella produzione casearia fu determinante. Nei monasteri, oltre alla trascrizione di antichi trattati di gastronomia, si sperimentavano tecniche di stagionatura e affinamento, che portarono alla nascita di specialità casearie ancora oggi apprezzate. Alcuni monasteri erano dotati di proprie fattorie e allevamenti, nei quali si producevano formaggi destinati sia al consumo interno della comunità religiosa, sia alla vendita nei mercati cittadini. Le tecniche utilizzate per la produzione del formaggio variarono a seconda della disponibilità di materie prime locali: nelle zone collinari e montuose si prediligevano formaggi ovini e caprini, mentre nelle aree pianeggianti prevaleva il latte vaccino.
Sebbene il formaggio fosse un prodotto accessibile a molti, la sua considerazione nella dieta variava a seconda delle epoche e delle prescrizioni mediche. Nel Medioevo, alcune teorie dietetiche lo ritenevano un alimento “pesante” per la digestione e ne consigliavano un consumo moderato, specialmente tra le classi più abbienti, che potevano permettersi cibi più raffinati. Tuttavia, nelle campagne e tra il popolo urbano, rimase sempre un alimento indispensabile per il suo apporto proteico e la sua lunga conservabilità.
Con il passare del tempo, la diffusione e il commercio del formaggio aumentarono, grazie agli scambi con altre regioni e alla presenza di mercati specializzati dove era possibile acquistare diverse varietà a seconda della disponibilità stagionale. La vendita avveniva spesso nei pressi delle piazze cittadine e delle botteghe di alimentari, che fornivano i principali prodotti caseari alla popolazione. La sua produzione e il suo consumo continuarono a evolversi, gettando le basi per l’ampia varietà di formaggi che caratterizzano oggi la tradizione gastronomica italiana.
Il pollame e le uova: un lusso accessibile
La vendita di pollame nel Medioevo avveniva in mercati specificamente designati, dove gli allevatori e i mercanti portavano i loro animali per lo smercio. Il prezzo variava a seconda delle dimensioni, della qualità e dell’età del volatile, con una chiara distinzione tra esemplari giovani e più pregiati, destinati alle tavole aristocratiche, e quelli più vecchi e meno costosi, preferiti dalle classi popolari. I mercati del pollame erano regolamentati dalle autorità cittadine, che imponevano norme sui prezzi e sulla qualità della merce venduta. In alcuni casi, i venditori dovevano rispettare un prezzo massimo stabilito per evitare speculazioni e garantire l’accessibilità del prodotto anche ai ceti meno abbienti.
Galline, capponi e anatre erano tra i volatili più richiesti. I capponi, in particolare, erano considerati un alimento pregiato e venivano spesso riservati ai banchetti nobiliari o ai periodi di festa. L’ingrassamento del cappone attraverso la castrazione artificiale del gallo ne migliorava la tenerezza della carne, rendendolo una prelibatezza per la nobiltà. Anche le oche e le anatre erano molto apprezzate, specialmente nei periodi di Quaresima, quando la Chiesa imponeva restrizioni sul consumo di carne rossa.
Il pollame rappresentava una delle poche fonti proteiche alla portata anche delle classi meno abbienti, che spesso allevavano galline nei cortili o nei piccoli appezzamenti fuori città. Tuttavia, il loro consumo rimaneva limitato per i più poveri, che preferivano acquistare parti meno pregiate, come zampe e interiora, utilizzate per preparare brodi nutrienti e zuppe.
Le uova, invece, godevano di una diffusione molto più ampia e venivano consumate trasversalmente in tutte le fasce della popolazione. La loro versatilità le rendeva un ingrediente fondamentale in molte preparazioni, dalle semplici frittate alle salse più elaborate. Erano spesso usate come legante nei piatti a base di verdure e cereali o impiegate nella realizzazione di pani dolci e focacce arricchite. Nelle cucine aristocratiche, le uova erano utilizzate per preparare piatti complessi, conditi con spezie costose come lo zafferano, che conferiva loro un colore dorato e un sapore ricercato.
Oltre a essere un alimento nutriente e facilmente reperibile, le uova erano considerate benefiche dalla medicina medievale, che ne raccomandava il consumo soprattutto per i malati e i convalescenti. Il loro valore energetico e la loro facile digestione le rendevano ideali per chi aveva bisogno di un pasto leggero ma sostanzioso. Nei periodi di digiuno imposti dalla Chiesa, le uova venivano tollerate e rappresentavano una delle poche fonti proteiche consentite.
Il commercio del pollame e delle uova era un settore ben organizzato all’interno dei mercati medievali. Oltre ai venditori fissi, vi erano anche venditori ambulanti, che trasportavano le loro merci in gerle e le vendevano lungo le strade cittadine o nei pressi delle taverne. In alcune zone, esistevano addirittura mercati dedicati esclusivamente alla vendita di volatili e uova, come la Pulleria di Napoli, il cui esatto posizionamento è oggi incerto, ma che rappresentava un punto di riferimento per l’acquisto di questi prodotti.
Grazie alla loro larga diffusione e al loro valore nutrizionale, pollame e uova rimasero una costante nella dieta medievale, rappresentando una fonte di sostentamento essenziale per tutte le classi sociali, dai contadini ai nobili. La loro versatilità in cucina e la possibilità di conservarli per periodi relativamente lunghi li rendevano indispensabili nell’alimentazione quotidiana e nei grandi banchetti medievali.
I dolci e la frutta: piaceri per pochi
Nel Medioevo, il consumo di dolci era un lusso riservato principalmente alla nobiltà e al clero, in quanto richiedeva ingredienti pregiati e costosi, spesso importati da lontano. Lo zucchero, per esempio, non era ancora ampiamente diffuso in Europa e veniva importato dalle regioni arabe, risultando estremamente costoso e accessibile solo alle famiglie più facoltose. Il miele, invece, era il dolcificante più utilizzato, poiché era prodotto localmente ed era l’unico disponibile in grandi quantità. Spezie come cannella, zenzero, noce moscata e chiodi di garofano erano tra gli aromi più apprezzati nella preparazione di dolci, ma anch’esse avevano prezzi elevati, rendendole un privilegio esclusivo delle classi più ricche.
Tra le specialità più diffuse si trovavano le rissole, dolci antenati dei panzerotti, che potevano essere ripieni di frutta secca, crema o ricotta zuccherata e poi fritti o cotti al forno. Questi dolci, spesso serviti nei banchetti, erano particolarmente apprezzati per il loro equilibrio tra croccantezza e morbidezza interna. Un altro dolce popolare tra le élite erano i mostaccioli, biscotti speziati a base di miele e farina, che venivano spesso preparati nei monasteri. Alcune varianti prevedevano l’aggiunta di mandorle o noci, ingredienti che conferivano maggiore sapore e prestigio alla preparazione.
I monasteri giocarono un ruolo cruciale nella produzione e nella diffusione dei dolci. I monaci, con le loro conoscenze botaniche e gastronomiche, sperimentarono ricette a base di miele e frutta secca, creando dolci che si diffusero poi anche nelle corti aristocratiche. Alcuni di questi dolci erano preparati in occasione di festività religiose, come il panis mellitus, un pane dolce arricchito con spezie e frutta secca, che veniva consumato in occasione di celebrazioni liturgiche.
La frutta fresca era un altro elemento chiave nella pasticceria medievale, anche se il suo consumo rimaneva limitato. Mele, pere, fichi e agrumi erano coltivati nei giardini privati delle famiglie nobiliari e nei chiostri monastici, ma raramente raggiungevano i mercati cittadini. Questo perché la frutta era considerata un prodotto deperibile e difficile da conservare, motivo per cui veniva spesso trasformata in marmellate, conserve o utilizzata in pasticceria. Nelle corti, la frutta fresca veniva servita a fine pasto o impiegata per la preparazione di dolci raffinati, come le torte di mele o pere cotte con miele e spezie.
L’accessibilità ai dolci per le classi popolari era decisamente inferiore. Gli artigiani e i contadini potevano concedersi dolci solo in rare occasioni, utilizzando ingredienti più semplici e meno costosi. Il pane dolce, impastato con miele e qualche spezia locale, era una delle poche varianti dolci disponibili per il popolo. In alternativa, si preparavano focacce arricchite con uvetta o frutta secca, ma senza l’uso di zucchero o spezie pregiate.
I dolci medievali, dunque, riflettevano le forti disparità sociali dell’epoca: se per i nobili rappresentavano un simbolo di lusso e raffinatezza, per il popolo erano un piacere occasionale, limitato a festività e celebrazioni speciali. Tuttavia, grazie ai monasteri e agli scambi commerciali con il Mediterraneo, la tradizione dolciaria di Napoli iniziò a svilupparsi, gettando le basi per le celebri specialità che ancora oggi caratterizzano la sua gastronomia.
L’influenza culturale nella cucina napoletana
La cucina medievale napoletana fu il risultato di un complesso intreccio di influenze culturali che si svilupparono nel corso dei secoli, con apporti normanni, svevi, angioini e aragonesi, ma soprattutto con forti contaminazioni francesi e arabe. Questi influssi si manifestarono non solo nelle tecniche di preparazione e nella scelta degli ingredienti, ma anche nelle abitudini alimentari e nei modelli di consumo. Napoli, grazie alla sua posizione strategica e alla vivace attività commerciale, divenne un crocevia di scambi gastronomici tra Oriente e Occidente, assimilando e rielaborando tradizioni culinarie differenti.
Uno dei principali documenti che testimonia questa fusione di culture è il Liber de Coquina, un trattato di cucina redatto alla corte angioina di Napoli nel XIV secolo. Questo manoscritto rappresenta una delle prime raccolte di ricette dell’epoca medievale e offre un quadro dettagliato delle influenze gastronomiche che si diffusero nella città. In particolare, le preparazioni riportate nel testo mostrano un uso raffinato delle spezie, tipico della cucina araba, e delle salse elaborate, una caratteristica della tradizione culinaria francese.
L’influenza araba si manifestò principalmente attraverso l’introduzione di ingredienti come riso, zucchero, agrumi, mandorle e spezie esotiche. Le spezie come lo zafferano, la cannella e il cumino non solo insaporivano i piatti, ma avevano anche una funzione conservante e medicinale. L’uso delle salse agrodolci, ottenute mescolando miele o zucchero con aceto o agrumi, derivava anch’esso dalla tradizione araba e divenne un tratto distintivo della cucina aristocratica napoletana. Anche la diffusione della pastella fritta, utilizzata per cuocere verdure e pesci, è riconducibile alle tecniche culinarie importate dal mondo islamico.
L’influenza francese, introdotta con l’arrivo degli Angioini, modificò ulteriormente le abitudini alimentari, raffinando i metodi di preparazione e dando maggiore importanza alla presentazione dei piatti. Le cucine di corte si arricchirono di preparazioni più elaborate, spesso accompagnate da salse dense a base di brodo, vino o latte. Le carni venivano speziate e cotte lentamente, in modo da esaltarne il sapore, mentre i dolci iniziarono a incorporare ingredienti più ricchi, come mandorle e burro. La cucina francese influenzò anche la panificazione, introducendo tecniche per ottenere pane più raffinato e ben lievitato, destinato alle classi nobiliari.
L’equilibrio tra questi elementi esotici e i prodotti autoctoni diede origine a una cucina unica, che si adattò alle risorse locali pur mantenendo un carattere internazionale. Ingredienti tipici del territorio napoletano, come il pesce fresco, l’olio d’oliva, le erbe aromatiche e le verdure coltivate nei giardini cittadini, furono integrati con le nuove tecniche e sapori importati dall’estero, creando una tradizione culinaria ricca e variegata.
Questa continua contaminazione contribuì a definire l’identità gastronomica di Napoli, che ancora oggi conserva tracce evidenti di queste influenze medievali. Piatti come il riso con zafferano, le fritture di pesce in pastella, l’uso di spezie nei dolci e persino alcune preparazioni di carne con salse speziate rispecchiano il lascito della cucina medievale, dimostrando come la storia abbia plasmato una delle tradizioni gastronomiche più apprezzate al mondo.
Napoli, nel Medioevo, sviluppò un sistema alimentare complesso, influenzato dalle risorse disponibili, dalle tradizioni culturali e dalle rigide regolamentazioni imposte dalle autorità cittadine. Se da un lato la nobiltà poteva concedersi banchetti sontuosi a base di carni pregiate, spezie rare e dolci elaborati, la maggior parte della popolazione si sostentava con alimenti più semplici, ma altrettanto essenziali: pane, legumi, verdure e pesce economico. I mercati cittadini, i regolamenti sulle gabelle e le assise sui prezzi dimostrano quanto fosse strutturata la distribuzione dei generi alimentari, con un’organizzazione che garantiva un flusso costante di prodotti nelle piazze e nelle botteghe.
Il cibo, dunque, non era solo una necessità, ma anche un riflesso della stratificazione sociale e delle influenze culturali che hanno segnato la storia di Napoli, lasciando un’eredità che ancora oggi si ritrova nella sua tradizione gastronomica.